AUTOSTRADE SENZA ASFALTO PER L’APPENNINO (articolo per "Piacenza Rivista")


Montagna e sviluppo (im)possibile


Analizziamo insieme che fine hanno fatto i progetti di “salvataggio” dell’Appennino lanciati di volta in volta in roboanti conferenze stampa, senza che nessun giornale o giornalista si sia preso il compito di andare a verificare le effettive realizzazioni.


Un anno e mezzo vissuto in montagna. Di vita vissuta a Bardi, alta val Ceno, nell’Appennino che era piacentino e che, come altri comuni della zona, è diventato parmense da poco meno di settant’anni. Trasferito da Piacenza e dintorni volontariamente e con entusiasmo spostando famiglia e lavoro.


Due inverni, che segnano la vera scansione dell'anno che passa e che soprattutto determinano chi sono quelli che restano nei mesi più duri e quindi che veramente abitano l'Appennino con orgoglio e ostinazione.

Due inverni che mi permettono di parlare con una minima cognizione di causa, senza osare ancora utilizzare un "noi" che sarebbe veramente ingiusto e azzardato poiché, pur avendo compreso molti meccanismi, posso dire di essere solo agli inizi per quanto riguarda la comprensione delle culture e delle mentalità più profonde.


Con la fortuna di una fortezza splendida Bardi è molto simile al territorio circostante; per rendere senza fatica né forzature il tutto familiare ai lettori di questa rivista possiamo tranquillamente dire che spostando per un lo sguardo sui paesaggi non si troverebbe nulla di troppo diverso da Morfasso, Ferriere, Farini, Cortebrugnatella, Ottone o Coli.

La storia del dopoguerra è comune e riguarda una fascia orizzontale della cartina che parla, per tutti i comuni dell’Appennino Emiliano, di emigrazione e spopolamento improvvisi. Di vero e proprio abbandono.

Sono territori che già conoscevo bene. E’ proprio grazie alle lunghe camminate fatte per qualche anno con l’Associazione escursionistica OTP GEA che ho un legame talmente intenso con la nostra montagna da diventare addirittura una scelta di vita.

Escursioni che mi hanno permesso una vista nel dettaglio di quanto fosse ormai profondo e avanzato il grande deserto di boschi e villaggi fantasma. Triste e affascinante allo stesso tempo, inabitato e inanimato; letteralmente “lasciato andare” per poter vendere i diversi scempi architettonici e paesaggistici come rilanci turistici o economici, per creare forse solo vie di fughe per la calura estiva di pianura.


Eppure da qualche anno si parla spesso di ripopolamento, di rilancio e di inversione di tendenza.

Per valutare la differenza tra fatti e parole posso ora unire due esperienze che mi permettono di avere punti di vista privilegiati e soprattutto di fare qualche confronto:

1) Oltre 10 anni passati nel piacentino a contatto con amministrazioni ed enti di ogni genere mentre prestavo la mia opera di promotore, pubblicitario, consulente e anche organizzatore di diverse iniziative culturali, turistiche, formative e di impresa;

2) Il trasferimento a Bardi, in un’altra provincia, con il coinvolgimento nel progetto di rilancio del relativo territorio attraverso l’informatica e la telematica. 


Per le ragioni appena esposte ho seguito per anni con attenzione ogni articolo, convegno e iniziativa relativi alla teorica volontà di “salvataggio” dell’Appennino Piacentino. Sgombro subito il campo dicendo che ho visto anche iniziative lodevoli e conosciuto persone volenterose e splendide (purtroppo questa frase servirà da alibi ai pessimi e non eviterà di coinvolgere quelli che non lo meritano... inevitabile...).

Ma non solo i risultati non ci sono stati e difficilmente ci saranno ma posso tranquillamente dire che “ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare”.

Rischio querele dicendo cose pesanti e dirette, ma credo che rischino molto di più i diretti interessati che volessero provare a contraddirmi se dico che:

1) sono state aperte molte aziende con sede legale nei comuni montani investiti dai consistenti finanziamenti del cosiddetto Obiettivo 2 (sostegno alle imprese in aree depresse) che in realtà operano in città o comunque in aree non disagiate;

2) sono state realizzate iniziative fittizie, con il sostegno di enti e strutture a partecipazione pubblica e privata, al solo scopo di ottenere finanziamenti (penso a richieste urgenti che mi sono pervenute di produrre in pochissime copie materiali promozionali “postumi” di iniziative che non avevo visto “prima”);

3) i numeri delle presenze turistiche sono spesso gonfiati dai vari soggetti preposti;

4) sono stati realizzati un numero spropositato di corsi di formazione finanziati, legati ai progetti di rilancio della montagna, con studenti fittizi;

5) la maggiore parte dei progetti telematici e informatici per la montagna finanziati non è mai proseguita oltre la data dell’ottenimento dei finanziamenti stessi (invito gli smanettoni ad andare a caccia dei cosiddetti siti appenninici da catalogare in Afterlife.org, il cimitero di internet...);

Queste cose dopo 50 anni in cui molti “amministratori” si sono prodigati a coltivare i propri potentati con il semplice gioco di trovare lavoro in pianura ai propri concittadini creando un vero e proprio scivolo “migratorio” verso valle. In questo aiutati dalla casta dell’unico investimento di liquidi evocato da decenni a Piacenza e che ha visto allargare l’asse del mattone cittadino proprio agli abitanti della montagna. Guai incentivare gli investimenti in imprese e attività... magari nei paesi di origine... guai!

In questo senso sarebbe interessante una tesi di Urbanistica di un volenteroso studente che ci porti dati statistici sufficienti e rompere ogni indugio, così potremmo ribattezzare come Alta Val Trebbia l’intero quartiere 2000 o Alta Val Nure tutta la zona attorno a via Boselli.


Ma queste sono solo le premesse per descrivere l’abisso e il ritardo.

Cosa invece trovo a pochi chilometri di così tanto diverso?

Un territorio compatto e coeso. Ma soprattutto consapevole. Che è stato messo da ricercatori universitari di fronte a tabelle e proiezioni dove veniva spiegato a tutti entro quando interi paesi sarebbero spariti, o entro quando non ci sarebbero più stati i giustificativi per mantenere ospedali, scuole e altri servizi essenziali. E che per invertire la tendenza bisognava creare addirittura immigrazione dalla pianura anche perché non bastava bloccare l’emoragia. E che una delle possibilità era quella di creare delle buone strade e addirittura autostrade.... informatiche!

Quindi non asfalto stavolta, perché finora era servito solo a favorire come minimo il pendolarismo o a distruggere l’ambiente e il paesaggio, due elementi essenziali che adesso potevano tornare ad essere motivo di scelta di vita per molti.

Molti come me, a cui basta una buona velocità di connessione per poter essere virtualmente ovunque, un tavolo e una stanza che non abbia la vista sui capannoni di un polo logistico.

E che per “scendere” una paio di volte al mese possono permettersi anche qualche curva in più, pur di mantenere intatto questo paradiso naturale creato (a questo punto bisognerebbe dire per fortuna) da 50 anni di arretratezza.

Bene, allora perché per non fare un profondo mea culpa e non imboccare la stessa strada?

Si può fare tenendo presente però un ritardo di almeno 10 anni e soldi sprecati in momenti che potevano essere ben più favorevoli dell’attuale.


Ma mi fermo per non bruciare argomenti che spero possano essere ospitati nei prossimi numeri. Ci sono tanti spunti collegati: la “faccenda” della fibra ottica, MiPiace.com, Sintra e il “paracadute pubblico”, le comunità montane, Piacenza Turismi, un’elenco ragionato dei “faccendieri delle promozioni turistiche fantasma” e... gran cappello... il fantomatico “marketing per il territorio”....


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